Cirnèra
cirnèra: sacca realizzata generalmente in lauratu, tessuto di cotone pesante, o di lona (tessuto analogo al lauratu ma di lino), che le spigolatrici, legandola sul davanti, portavano dietro per non essere da questa impedite quando si abbassavano, utilizzata per mettervi le preziose spighe cadute dalle mani dei mietitori o che erano rimaste nei campi dopo il trasporto dei covoni nell’aia, racimolate qua e là, una ad una. La spigolatrice è una figura, oggi praticamente scomparsa, emblema della civiltà contadina fondata sull’economia. Spesso le mamme recavano con loro i picciriddi che erano pronti ad aiutare i grandi nella raccolta dei manipoli (jèmmiti) per legarli in covoni (regni), e che poi collaboravano con loro nella raccolta delle spighe rimaste nei campi che, altrimenti, sarebbero andate perdute.
Fàuci
Fàuci: falce (dal latino falcis, falci, fauci), arnese di ferro ricurvo tagliente all’interno, per mietere il grano, le biade e altri cereali, di misura e taglio diverso secondo le granaglie da mietere. Ogni mietitore aveva la propria falce adeguata alla sua mano.
cannèddi: ditali di canna che i mietitori infilavano nelle dita della mano che svolgeva il compito di afferrare quanto più possibile steli di grano, in genere la sinistra, per salvaguardarla dalla falce azionata dalla destra.
‘A cannedda era costituita da un pezzo di canna lungo circa 12-15 cm di cui 7-8 costituivano la parte che veniva infilata nel dito, mentre tutto il resto era “l’unghia” che veniva realizzata tagliando a fischietto la parte di sotto.
Còffa
Còffa: sporta, cesta (dall’arabo quffa = cesta, che deriva dal greco κόφινος): veniva utilizzata appendendola, mediante manici, alla testa del cavallo per dargli da mangiare ‘a spisa (cereali, di solito misti), in modo che niente vada perduto. La còffa è realizzata in tessuto di cucina, ricavata dalla palma nana, detta di San Pietro (chamaerops humilis), appartenente alla famiglia delle arecaceae, l’unica specie tipica della macchia mediterranea che cresce spontanea dalle nostre parti. Il nome del genere fa riferimento alla morfologia della pianta (dal greco chamai = basso e rhaps = cespuglio), perciò chiamata dai greci phoenix chamaeriphes che letteralmente significa “palma gettata per terra”. La fibra ottenuta dalle foglie viene utilizzata per la fabbricazione di scope, ventagli, funi, ceste, panieri, stuoie, cappelli, cordicelle.
Jùvu
Jùvu: giogo (dal lat. iŭgum): strumento di legno ricurvo, costituito da una trave in legno sagomato formante alle due estremità due identici collari, detti “cuddara“, delimitati da due fori passanti in cui venivano fissate le cordicelle dei pettorali che trattenevano i due animali al giogo. L’incavo al centro del giogo serviva per tenere fissa la “pastura” (pastoia), realizzata con due verghe di faggio attorcigliate su se stesse e intrecciate l’una con l’altra, necessaria per collegare l’estremità della trave dell’aratro, o di alcuni tipi di carretti, al centro del giogo tirato dagli animali. A seconda della stazza degli animali da aggiogare, venivano realizzati diversi tipi jùvu, più o meno grandi: per mucche e buoi, per cavalli e muli e per asini.
rrutùni
rrutùni: rete di corda non molto spessa a forma quadrata o rettangolare, con maglie larghe 15-20 cm che serviva al trasporto della paglia ammucchiatavi sopra e serrata riunendo al centro le quattro estremità legate assieme (rrutùni ri pagghia). Ogni rutuni pesava circa 80 kg. ma non di rado arrivava anche oltre i 100 kg. e veniva portato caricandolo abilmente sulle spalle (‘nté catinazza ‘i cuoddu). Se ben collocati, un carretto ne poteva trasportare fino a cinque: quattro facevano da base, naturalmente sbordando dai lati e davanti quasi sul cavallo, ed uno di sopra posto al centro che serviva anche per bloccare quelli di sotto. Portarli n ‘à arcovi era impresa ancora più ardua perché bisognava salire su una scala a pioli… Anziché usare ‘u rrutùni venivano utilizzati anche dei teli, della stessa ampiezza di un lenzuolo, chiamati linzola ‘i pagghia.
Quando era prossimo ‘u tiempu râ mersa (tempo della mietitura), le mogli dei mietitori preparavano alcuni indumenti indispensabili dei quali non si poteva fare a meno, tra i quali:
Pittiràli o mantàli ppi metri: pettorale, sorta di lungo grembiale realizzato in lona (lino grezzo tessuto a mano), particolarmente resistente, che veniva indossato dai mietitori per difendersi dalle reste del grano.
Urazzàli: bracciale, realizzato di laurato o di lona che i mietitori indossavano sulle avambraccia per ripararsi, oltre che dalle reste pungenti del grano, da qualche colpo di falce.
Unità di misura
Per misurare i solidi come frumento, granaglie varie, legumi, frutta secca ecc., si faceva largo uso dell’ Unità di misura di Capacità per aridi (diversa anche tra paesi viciniori). I misuratori erano di forma cilindrica, realizzati in legno duro curvato e rinforzati ai bordi con fasce metalliche:
Tùmminu: tòmolo (17,29 lt), composto da 4 munnìa+4 misurèddi. Più usato ró tumminu era ‘u ru’ munnia perché più maneggevole.
Munnìu: mondello (4,29 lt), dal lat. módìus e módìum, composto da 4 coppa+1 misurèdda corrispondente alla 4a parte del tùmminu.
Cuòppu: coppo (1,07 lt), corrispondente a 4 misurèddi; 4 coppa + 1 misurèdda formano 1 munnìu.
Misurèdda o musurèdda: diminuitivo di misùra (0,2686 lt), dal lat. mensfira, corrispondente alla 4a parte rò cuòppu.
Trarènta ri fierru
Trarènta ri fierru: tridente di ferro (dal lat. trĭdens, trĭdentis): bastone lungo circa 1,5 m. alla cui estremità sono inastati tre rebbi in ferro appuntiti; si adopera per spagliare, ammonticchiare o spostare paglia, fieno, ecc. nonché per spostare lo stallatico. Può servire, all’occorrenza, come arma di difesa: infatti i contadini, quando lavorano in zone isolate e notoriamente insidiose, non mancano di tenerla a portata di mano. Per alcuni lavori viene utilizzato il tridente con rebbi di legno: ‘a trarenta lignu.
Furcùni: sorta di forca, simile alla trarenta, ma interamente in legno e con due soli rebbi, utilizzato per lo più per spostare paglia e biada (da non confondere ccó furcùni ppi cutulàri, che è tutt’altra cosa).
Saccu ‘i lona
Saccu ‘i lona: sacco di olona. Il termine “lona” deriva dal nome della città francese Olonne, dove, in spessa e robusta tela di cotone, veniva fabbricata questa tipica varietà di tessuto, usata per confezionare: sacca, jnzola ppd pagghia, rutuna ‘i carrettu, mantali ppi metri, urazzala, funna ri segghi, tiluna ppà ricoita ré ulivi, vièrtili, usazza, ecc. Le nostre laboriose donne non erano da meno delle fabbriche francesi e quelle che avevano il telaio in casa erano capacissime a tessere lona di altrettanta altissima qualità, riunendo nelle tele prodotte resistenza e coesione che ne facevano oggetto di desiderio. L’indiscussa tenacità di questo tessuto era tanto notoria ai nostri avi che la dote matrimoniale, sia delle donne che degli uomini, comprendeva sempre qualcosa realizzata in lona.
Vièrtili
Vièrtili: bisacce, composte da due tasche collegate insieme, realizzate al telaio in robusto laurato, che i contadini portavano a cavallo di una spalla o mettevano sull’arcione dietro la sella per portare roba in viaggio. I vièrtili, inseparabili compagni di ogni contadino, contenevano di tutto: pani, carratieddu ccò vinu, cumpanagghiu, trinciatu forti e cartini ppé sicaretti ecc., ma venivano usati anche per andare a riscogghiri miennili, carrui e ulivi. Se ne realizzavano di misure diverse, anche ppé picciriddi (virtilicci), da lavoro o da festa (ppò viagghiu a San Currau) con pregevoli ricami, e facevano parte della dote ré masculi. Ne venivano realizzati anche di misure molto grandi per il trasporto di derrate alimentari o altro, chiamati usazzi. Dal lat. verto, perché si rivoltano sopra le spalle o sopra l’arcione della sella.
Liàma
Liàma: legaccio, corda realizzata dal «liàmaru» intrecciando le tenaci foglie dell’ampelodesmo (Ampelodesmos mauritanicus) è una pianta perenne della famiglia delle Graminacee, che vive su terreni aridi e sabbiosi, e pertanto vegeta spontanea nelle alture incolte dei monti Iblei ed Erei o ai margini delle trazzere. La «liàma» serviva per legare assieme un certo numero di manipoli di grano in modo da formare una règna (covone). La «liama» oltre che per legare i covoni di grano, di fieno o di altri cereali serviva anche per legare le frasche in fasci o per altri usi in sostituzione delle funi: la sera antecedente l’utilizzazione veniva messa in acqua perché riacquistasse la tenacità persa con la disidratazione.